Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato (come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia. Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata: l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo che meriti di essere salvato.
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Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle dinamiche interiori: all’interno di queste – come l’incontro con le passioni, con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco, del problema ontologico su quello morale.
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Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.
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Terrorizzato dai grandi numeri – che annientano l’io allo sbadiglio, a uno sbaglio, allo zero – Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come faccio ad amare un’unica donna se “non so chi sono io” e lei è “una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante vacche… un miliardo di vacche, un miliardo di femmine?”.
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Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa.
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Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini, invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci dell’immaginazione.
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I nostri sceneggiatori tenevano molto a mostrare la morte del principe, ma dedicarvi un intero episodio inevitabilmente avrebbe dato il senso di una grande sconfitta. Neppure Visconti lo ha mostrato. Invece il nostro finale, che è un piccolo finale, e che pure non è un happy ending, dà speranza: concludere la storia con i due fratelli che riportano dentro la famiglia alcune proprietà proprio grazie ai soldi del ceto emergente riguadagnati attraverso il matrimonio di Tancredi, che era stato vissuto come una sconfitta, personale e di classe, è una rivincita, e apre alla speranza. Come anche l’ultima passeggiata di Concetta, il nuovo Gattopardo. La tradizione rimane, ma preservare quel passato non significa immobilizzarlo, imbalsamarlo, perché questo passato, questa Sicilia che vediamo nella sua bellezza, ha un valore. Il finale non mette in scena un tramonto, ma un’alba: l’alba di un’epoca nuova, che non si sa cosa porterà, ma proprio per questo nasconde in sé anche una speranza per il futuro. Luisa Cotta Ramosino, Direttrice delle serie italiane Netflix, ci racconta gli ingranaggi della serie-evento.
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Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro.
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“Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.
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