Siccome ha un grande avvenire dietro le spalle, Ignazio La Russa è ritenuto un uomo politico molto intelligente. Per passare dai palchetti neofascisti di piazza San Babila dei primi anni Settanta allo scranno di presidente del Senato, in effetti il salto è stato notevole e complicato, circa mezzo secolo c’è voluto, però ce l’ha fatta. Assumendo la seconda carica dello Stato si pensava che si sarebbe lasciato dietro la sua lunga militanza e avrebbe persino rivisto qualche idea giovanile. Beninteso, senza esagerare: i busti del Mascellone stanno sempre là. E si pensava che come minimo avrebbe capito che il presidente del Senato non deve «fare campagna», come invece ha annunciato lui stesso, per l’astensione ai referendum dell’8 e 9 giugno.
Per esempio, va dato atto al presidente della Camera Lorenzo Fontana, leghista e ultraconservatore, di sapersi mantenere sempre fuori dalla battaglia politica. La Russa non è della stessa pasta, e politica la fa e la farà sempre, senza pause. Ma «fare campagna» è un’altra cosa. È scendere in campo per orientare i cittadini, cioè quello che spetta di fare ai partiti, ai sindacati, ai giornali, agli intellettuali. Insomma a tutti, tranne che ai presidenti delle Camere, tenute, per logica e per prassi (vero, talvolta violata: ma questo non è un buon motivo per perseverare), a non «fare campagna» né per il Sì né per il No né per l’astensione.
Ha dato poi ulteriore fastidio che La Russi inviti a non andare a votare, che è una scelta legittima e non immorale come insinua la sinistra (che non si rende conto di insultare milioni di persone) e tuttavia abbastanza imbarazzante per un uomo di Stato. Ma il fatto sarebbe stato ugualmente grave se avesse detto di votare Sì oppure No: il silenzio, questo sconosciuto.
di Mario Lavia | link in bio