“Il nulla abbonda, il tempo scarseggia.”
Così inizia “Vuoto, nulla vacuità”, con una brevissima sentenza che ha tutto il sapore di un adagio erasmiano, capace, con brevi e sicuri tratteggi, di dar forma a un quadro enigmatico, che lascia intendere una carenza.
È del nulla che si parlerà, e la storia più recente della filosofia eccede di ogni genere di nulla – dallo zero di Alain Badiou, al Meno di niente di Slavoj Žižek o a certe forme nichiliste del realismo speculativo, per citarne alcuni. Ma c’è un nulla al quale non era ancora stata riconosciuta piena dignità nel dibattito filosofico, un’idea alla quale non era stato permesso di mettersi in un dialogo alla pari con le categorie più importanti del contemporaneo.
Si tratta del nulla, – o meglio del vuoto, o ancora meglio della vacuità –, come categoria essenziale del buddhismo.
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