🔴 Nel numero di Famiglia Cristiana del 23 febbraio scorso, all’interno dello spazio solitamente riservato alla posta, una lettrice confessava al direttore Don Stefano Stimamiglio di essere turbata da “1-2-3… Stella”, il famoso gioco a cui da piccoli ognuno di noi ha dedicato ore e ore del proprio tempo, tentando di stanare il minimo movimento dei propri compagni e impedire loro di fare ‘tana’ o ‘stellone”.
A preoccuparla, però, non era il gioco in sé. Semmai il fatto che nella scuola primaria del marito, insegnante di religione, i bambini erano entusiasti di giocarvi nella modalità vista in Squid Game, la serie coreana campione di incassi, trasmessa su Netflix, ormai giunta alla seconda stagione. Dove in ballo, com’è noto, è l’eliminazione stessa dei concorrenti. I quali, stritolati dai debiti contratti nel mondo reale, per poterli saldare cercano di scampare in tutti i modi la morte in un gioco a eliminazione, offrendo l’unica (l’ultima) cosa che possiedono: la propria vita. A fronte dello sconcerto della lettrice, il direttore, preso atto della pericolosità di questa diffusa banalizzazione e spettacolarizzazione della violenza, concludeva che scene del genere si «depositano in modo caotico e privo di significati nella mente dei bambini» e, questo, «non li aiuta a crescere in modo sano». Da qui la difficoltà delle ‘agenzie’ naturalmente preposte all’educazione dei giovani: famiglia e scuola in testa. Ecco, sintetizzando, si potrebbe dire che il problema, come emerge chiaramente dalle parole e dal tono di questo botta e risposta, è il nostro eterno rapporto con il male, o per meglio dire con la rappresentazione del male, declinato innanzitutto in violenza manifesta – spesso brutale e gratuita, tipica della specie homo cui apparteniamo -, seppure questa non rappresenti l’unica forma in grado di influenzare le nostre coscienze e i nostri comportamenti.
🖋️ La recensione a cura di Alberto Scuderi
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