«La testa del Padre Morto. La cosa più evidente: gli occhi aperti. Fissano il cielo. Due toni nell’azzurro dell’iride, quelli del pacchetto delle Gitanes. Capo sempre immobile. Occhi da decenni spalancati. Fronte nobile, buondio, che altro? Spaziosa e nobile. E serena, ovviamente. È morto, potrebbe essere altrimenti? Cinque metri e mezzo dalla punta del naso dalle narici finemente modellate fino a terra, cifra, questa, ottenuta mediante triangolazione».
Il Padre Morto non è vivo, ma non è nemmeno morto. È morto «solo in un certo senso», dato che si rifiuta di restare inerte e lasciarsi trascinare da una spedizione con a capo il figlio verso la destinazione più ovvia. Il suo cadavere è ingombrante: il piede misura sette metri, il corpo, cosparso di cavità-confessionali, si estende per un miglio (a volte, tuttavia, sembra solo un uomo di dimensioni umane, avvolto da un mantello dorato). Prima di morire, ha governato con mano ferma, sicura e dittatoriale. È mezzo morto e mezzo vivo, in parte biologico in parte meccanico, è saggio e vanitoso, potente e indomabile, non si rassegna al destino di carcassa e con le ultime forze cerca di liberarsi dai lacci (e di sedurre l’amante del figlio).
Il viaggio è forse il simbolico parricidio che il figlio deve compiere per emanciparsi? È una satira di stampo freudiano? E il Padre è Dio, è il linguaggio, è la cultura? Ma forse il padre – come Dio, come la scrittura – riempie tutto lo spazio e non significa altro che se stesso.
«Il padre morto» di Donald Barthelme è in libreria
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